Rigor mortis

Qualche tempo fa ero al circo con la famiglia. Una piccola tenda da contenere solo un centinaio di persone. Eravamo tutti quindi così vicini al centro, che quasi non si distingueva l’area spettacolo dal pubblico, l’area finzione da quella della realtà. Sarà per questo, e per la mia innata propensione all’immedesimazione, che in un momento in particolare, mi sono sentita proprio lì, dentro lo spettacolo, nei panni di un clown. Questo clown fingeva di essere morto, e veniva trascinato preso per la testa e per i piedi, da altri due clown-giocolieri. Il clown morto, rimaneva, durante tutto il percorso, rigido proprio come un morto, fingeva il “rigor mortis”. Ed io, nei suoi panni, ripensavo ai miei “rigor mortis” in alcuni atteggiamenti quotidiani. Quando per esempio ho a che fare con qualcuno che non mi è molto simpatico, e magari non voglio perderci molto tempo: applico il “rigor mortis”. Mi estraneo dal mio corpo, per evitare la noia e il dolore di quell’incontro, nel dialogo annuisco senza ascoltare e parlo senza pensare. Sono viva, molto viva, ma fingo di non esserlo per evitare la pena, come se quell’incontro, quella relazione, potesse danneggiarmi o anche solo rischiare di ferirmi. A volte accenno anche ad un sorriso improvviso, teso e involontario, proprio come i morti. Me lo ricordo ancora quello di mia nonna, ero accanto a lei, prima che la bara venisse chiusa, quando è apparso quel riflesso sulla bocca. Mi hanno detto che in quel momento ha visto arrivare gli angeli. Quando succede a me invece, quel riflesso involontario della bocca, di certo non vedo gli angeli. Piuttosto è una bruttissima finzione che non rende onore e merito al sorriso vero, quello della gioia, del piacere, dell’allegria. E il “rigor mortis” lo applico anche quando non riesco ad essere assertiva: accetto l’idea dell’altro senza controbattere, senza sforzarmi di offrire una possibile alternativa che pure potrebbe aiutare a trovare una soluzione nuova. Con falsa umiltà lascio perdere le mie idee, facendo morire il mio pensiero, e vietando l’accesso alla mia identità. E con questo fingo di morire, ma è una morte inutile, una finzione che non fa neanche ridere come quella di un clown almeno fa. Più doloroso ma più fruttuoso invece è l’incontro da viva. Quando decido, a prescindere da chi ho di fronte, di mettermi in gioco, di essere viva e lucida e capace di dare, anche solo una risposta logica e coerente, anche solo un’idea semplice, anche solo un sorriso vero, per il solo motivo di dare onore a chi ho di fronte, quale essere umano degno di nota, e di costruire una soluzione nuova, inedita, allora davvero lo sforzo può far male, perché mi compromette, perché mi consuma. Mi fa morire. Ma mi fa morire di una morte che come una Fenice rinasce dalle proprie ceneri, e ancora più forte. Forte di quell’incontro, di quella sintesi di due esseri umani che hanno trovato il tempo di donarsi un po’ di sè, di arricchirsi della reciprocità, e si sono amati.

Qualche giorno dopo lo spettacolo circense, ho incontrato una di quelle persone che in genere liquiderei velocemente. Appena mi ha vista mi ha detto che ero così pallida, ma così pallida, come un morto. Ho parato il “complimento”con un sorriso vero, l’ho salutata con un abbraccio e le ho detto che ero molto felice di vederla, e di sentirmi più viva che mai!

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