Barbapapà

Ho riletto con molta nostalgia le prime storie di Barbapapà. Barbapapà è un essere molto ingombrante, goffo, amorfo, rosa seppur maschio, sarebbe l’antitesi del super eroe forte, perfetto e attraente fisicamente ed affabile nei rapporti. Eppure Barbapapà è un eroe. Silenziosamente e (nei limiti della sua stazza) con discrezione, è disponibile con tutti, e il suo modo di aiutare chi è nel bisogno è quello di cambiare ogni volta forma: diventa scala per salvare gli inquilini di un palazzo che brucia, diventa una gabbia per fermare un pericoloso leopardo scappato dallo zoo, diventa un ponte per far passare un treno che sta per precipitare, diventa scialuppa di salvataggio per salvare i passeggeri di una nave che affonda, diventa paracadute per non spaventare le mucche col rumore dell’elicottero; e gioca con i bambini diventando a volte una barca, a volte cavallo, a volte tanto altro. Non ha i classici super poteri, anzi il suo punto di forza è di mancare di qualcosa, si direbbe che “non ha spina dorsale”. Eppure con il suo “mancare” diventa tutto. Mi sembra proprio una bella favola per l’ oggi, quando facciamo a gara a chi appare di più e più bello e definito fisicamente, a chi grida più forte, a chi ha il carattere più deciso; quando i modelli educativi (se ci sono) sono forme vuote; allora il nostro Barbapapà si propone come un “pieno” informe. Barbapapà è pieno di compassione, di amicizia, di solidarietà, di fratellanza, di giustizia, ma elargisce i suoi doni facendosi di volta in volta un essere diverso. Riesce come nessun altro ad entrare nelle diverse situazioni con l’empatia di chi davvero può capirle perché può diventarne parte. Vorrei poter avere un Barbapapà tra i candidati alle elezioni. Un tenero e dolce amico che sa unire perché diventa lui stesso ponte, sa difendere perché diventa lui stesso scala antincendio, sa agire ecologicamente perché è nato dalla terra, sa salvare chi fugge in mare perché può farsi barca, sa proteggere perché può diventare mascherina.

Domani magari leggeremo che in America ha vinto Barbapapà. Non sarà forse più inverosimile di certi risultati elettorali!

Pasta ai fiori di zucca

– 500 gr pasta

– 15 fiori di zucca o anche di più, a piacere

– 200 gr di stracchino o simile

– 50 gr di pinoli

– una bustina di zafferano

– 1 spicchio d’aglio

– Olio extravergine di oliva

– Sale

Questa ricetta l’ho provata una volta mescolando gli ingredienti a caso ed ha avuto successo. Così adesso la faccio anche quando ho ospiti. È facile e veloce. Mettete a bollire l’acqua per la pasta. In una padella mettete un filo d’olio e fate dorare insieme uno spicchio d’aglio con i pinoli, poi aggiungete i fiori di zucca, salate a piacere e lasciate ancora per pochi minuti. Nel frattempo se l’acqua bolle buttate la pasta e salatela. Aggiungete un po’ di acqua della pasta alla padella e lasciate ancora per pochi minuti. Quindi frullate insieme lo stracchino e lo zafferano con il contenuto della padella aggiungendo, se necessario, ancora un po’ di acqua di cottura della pasta. Scolate la pasta ben al dente e conditela con il composto frullato. Aggiungete ancora un filo d’olio. Impiattate e spolverate con parmigiano o pecorino. Buon appetito!

(E’ molto buona anche se al posto dei fiori di zucca usate gli asparagi verdi freschi)

Cacca

(Questa volta spero mi perdoniate se ometto il disegno)

In questi ultimi tempi quello che non manca nelle nostre case, ma anche nelle nostre borse, tasche, auto, cestini delle bici, sono le mascherine. Tempo di Covid e non se ne può fare a meno. Io ho persino aggiunto dei ganci nell’armadio all’ingresso per le mascherine: giacche, sciarpe e mascherine. Se però penso al pre – Covid, l’unico ricordo che ho di una mascherina usata, trovata in casa per caso, è quello di quando dovevo cambiare il pannolino alla mia primogenita. La maternità è sicuramente un’esperienza bellissima, profonda e incomparabile, ma non per questo la natura ha pensato a tutto per affrontarla. Per me l’odore della cacca, sebbene di un bebè con un culetto morbido e delicato, è sempre stato ripugnante. A pensarci bene, il primo confronto diretto con escrementi umani, l’ho avuto con quelli di mia sorella di dieci anni più piccola di me. Eravamo in casa soli, io, lei e mio fratello più grande, e I. aveva fatto la cacca. L’aria ne parlava. Presa da un impeto di senso del dovere di sorella maggiore, ho iniziato a toglierle il pannolino, ma una volta di fronte alla materia marrone dall’odore inconfondibile, e non avendo una mascherina per proteggermi, sono scappata via. Mia sorella, spaventata dalla mia fuga, è scesa per terra e mi ha seguita. A quel punto anche mio fratello, terrorizzato dalla scena di quel culetto sporco di cacca, ha iniziato a scappare. E correvamo tutti attorno al tavolo per non farci raggiungere da quella bambina innocente ma puzzolente! Ad un certo punto ho avuto una illuminazione: ho detto a mia sorella di sedersi sulla sua sediolina e aspettare pochi minuti che sarebbe arrivata la mamma. E infatti in breve tempo il culetto è stato lavato e profumato, la seggiolina però, in rattan intrecciato, ha dovuto subire una pulizia con acqua ad alta pressione, a causa dello sporco incrostato tra le fibre, e in pochi mesi ha subito gli attacchi delle muffe che non le hanno lasciato scampo.

Dopo quella esperienza, e ormai cresciuta, ho dovuto affrontare ancora cinque culetti, tutti morbidi e delicati, ma tutti con lo stesso problema endemico: la cacca. Non mi abituerò mai all’odore tipico di questo materiale di scarto umano, ma sono contenta per le neo mamme di oggi: grazie al Covid, tutti abbiamo già le mascherine sempre con noi!

Torta salata di pane

Questa è una ricetta per la quale non esistono dosi e ingredienti fissi. Serve a svuotare il frigo di tutto quello che è scaduto o sta per scadere. E soprattutto serve a non buttare via il pane vecchio.

Quindi, vi dico che cosa ho usato io ieri, ma voi usate la vostra fantasia e soprattutto gli ingredienti che avete.

– 600 gr di pane duro

– 200 gr di squacquerone scaduto da due giorni

-150 gr di ricotta scaduta da tre giorni

– 110 gr di feta in scadenza

– 1 zucchina triste

– 4 uova non scadute

– latte

– sale

Lasciate ammorbidire il pane con il latte caldo. La quantità di latte dipende da quanto è secco il pane. Io ne ho aggiunto all’incirca due tazze. Potete lasciare tutto anche qualche ora e fare tranquillamente altre cose. Quando il pane si sarà ammorbidito, lavatevi benissimo le mani e procedete allo sfaldamento. Non usate assolutamente il frullatore altrimenti viene un pappone non adatto alla ricetta. Aggiungete i formaggi molli, la feta e la zucchina grattugiate, le uova e un po’ di sale e continuate a sfaldare e amalgamare allo stesso tempo. Imburrate una teglia e versateci l’impasto. Infornate per una mezz’oretta e lasciate raffreddare per una decina di minuti prima di servire. Piace a tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri, donne e uomini, cani e gatti, forse anche agli alieni! E soprattutto il giorno dopo, fredda è ancora più buona! Quindi se avanza potete darla per merenda ai vostri figli, o per pranzo al marito, o mangiatela voi quando vi pare e godetevela!

Aquiloni e unicorni

Siamo ormai in autunno, ma la testa pensa ancora alle belle giornate di cielo terso, sole caldo e mare azzurro. I pensieri volano con un aquilone per raggiungere i confini del cielo, e navigano su un unicorno gonfiabile verso le colonne d’Ercole.

Eppure, quelli che per me sono solo viaggi dell’immaginazione, due coraggiosissime e innocenti bambine li hanno fatti diventare realtà.

Una bambina è stata ritrovata al largo delle coste greche che galleggiava beatamente sul suo unicorno, ed un’altra, in Thailandia, si è fatta trasportare per qualche minuto da un aquilone.

In tutti e due i casi gli adulti hanno pensato che fosse bene riportare le bimbe a terra.

E mentre ancora penso al mio unicorno e al mio aquilone, mi chiedo se tra qualche anno, quando quelle bambine saranno adolescenti, quando si sentiranno soffocare dalle sollecitazioni di Instagram, Tik Tok, Twitter, dei contatti senza contatto, dell’istruzione a pressione, dei genitori spaesati, della società confusa, del mondo che gira troppo forte, della religione di dogmi e divieti, e chissà cosa altro di nuovo ci sarà, avranno voglia di ritentare le loro imprese.

Prenderanno un aquilone e un unicorno gonfiabile e scapperanno alla ricerca di un luogo lontano, silenzioso e solitario. E la notizia farà il giro del mondo, e tanti altri giovani faranno lo stesso: vedremo tanti nuovi Peter Pan volare attaccati ad aquiloni o navigare sugli unicorni. Ognuno cercherà un posticino silenzioso e solitario in cui l’unica voce che si potrà sentire sarà quella interiore. E quando la voce avrà parlato abbastanza, torneranno a terra. Tutti quanti. Felici, sicuri, sereni, pacifici, costruttivi, collaborativi, forti, altruisti, saggi…e costruiranno, insieme, un mondo nuovo.

Tutto qui. Per costruire un mondo nuovo di pace bastano un aquilone ed un unicorno gonfiabile.

La scopa e l’aspirapolvere

Non riesco ancora ad arrendermi all’uso quotidiano dell’aspirapolvere.

1) Per motivi ecologici. La scopa non consuma energia elettrica, consuma solo la mia energia e questo è più che bene.

2) Per motivi di metodo di raccolta. E qui spenderei qualche parola in più.

L’aspirapolvere ingurgita tutto indistintamente. Se passa sotto il divano, sotto il letto, sotto il tavolo o dietro una tenda, lui mangia tutto e se per caso incontra qualcosa che stavamo cercando da un mese, una perla preziosa o l’ultimo sticker per la raccolta punti del supermercato, siamo fritti, non li troveremo mai più. A meno che non gli svuoteremo la pancia per liberarlo dagli oggetti indigesti, ma non è un’operazione simpatica. Bisogna scavare bene tra la polvere concentrata e solidificata in una roccia di sporco, un’azione quasi da archeologo con lo scalpellino.

La scopa invece è più gentile e rispettosa. Lei non mangia, accompagna lo sporco con dolcezza, lo sposta un po’ alla volta verso una direzione, e poi a mano a mano lo dirige verso una zona, e lo concentra, ma mai lo ammassa indistintamente. La scopa dà il tempo a chi la usa di controllare cosa sta facendo, e a chi viene usato di farsi notare. La perla preziosa o lo sticker della raccolta punti del supermercato non solo non spariscono per sempre, ma vengono evidenziati nel percorso di trascinamento. E tutto il materiale trasportato e raccolto può essere verificato più volte: durante il passaggio della scopa, una volta ammucchiato sulla paletta, e anche alla fine quando viene buttato nella pattumiera. Senza dover scavare una roccia di sporcizia. La scopa ha la saggezza di lasciare sempre una possibilità di salvezza a chi lo merita. La sua pulizia dura meno, è vero. La polvere riappare più in fretta perché nello spostamento stesso qualcosa torna in aria e inevitabilmente alla fine ricade. Ma quale soddisfazione più grande possiamo avere del dare ancora una chance a qualcosa di così leggero che porta con sé mistero e ignoto?

Ogni tanto però ci vuole l’aspirapolvere, quando lo sporco ha davvero preso il sopravvento e tutto è diventato misterioso e ignoto perché ricoperto da una patina di ragnatele miste a polvere, capelli, terra, briciole e umidità. Allora è meglio lasciare che la bocca meccanica ingoi tutto e il gioco ricomincia da zero! Pazienza per l’ultimo sticker della raccolta punti. E la perla, meglio non farla cadere!

Gli amici

Vincent Willem van Gogh - Cafe Terrace at Night (Yorck).jpg

Quando, dopo una bella serata da noi con gli amici chiudo la porta, tiro un sospiro di felicità.

Come se per un paio d’ore fossi stata dentro un’opera d’arte. Ogni volta è così.

Come se, una volta arrivati gli amici, tirassi fuori da sotto il letto una tela di Van Gogh, per esempio come se dispiegassi a mo’ di tappeto una “Terrazza del caffè la sera” e chiedessi a tutti di salirci su: -Prego, accomodatevi. Stringete pure i tavoli così ci stiamo tutti. Arrivo subito con qualcosa da bere.

E poi, come se la tela diventasse un posto vero.

E poi, come se, prima di prendere da bere, sistemassi bene il cielo perché le stelle formino la costellazione giusta e poi la strada in basso, per non inciampare.

E poi, come se arrivassi col vassoio con i bicchieri e rimanessi tutta la serata in piedi con un grembiule bianco a servire. Perché servire gli amici mi fa sentire una regina.

E poi, come se, parlando tutto il tempo dell’infinito e del niente, non capissi una parola e non me ne importasse. Perché le parole degli amici, entrano dal naso, come l’aria. E vanno ai polmoni e poi al sangue e poi al cuore. E lì restano forse anche senza essere comprese ma di certo fanno bene.

E poi, come se ogni istante fosse una nuova pennellata, mai sbagliata. L’istante dopo ce n’è un’altra che aggiunge qualcosa ma non cancella niente.

E poi, come se il mondo stesse lì ad ammirarci dentro l’opera e respirasse anche lui quell’aria benefica e ne fosse rinnovato.

E poi, come se, arrivato il momento del commiato, salutassi tutti con un abbraccio, e prima di chiudere il caffè, guardassi ancora quel cielo, quei tavoli, quei ciottoli di strada, e li benedissi.

Ed infine, come se, prima di riarrotolare la tela-tappeto per riporla sotto il letto, la scrollassi un po’. E invece che briciole, cadesse giù magica polvere di stelle.

Positivo e negativo

– Papy è negativo!

– Non è vero, sei cattiva mamma!

– Ma no, intendo negativo al Covid, cioè non è malato!

– Ma io credevo che negativo fosse qualcosa di brutto e positivo qualcosa di bello.

– Hai ragione, in genere è così. Ma in questo caso è il contrario!

Positivo, negativo. Anche io non avevo mai riflettuto sul fatto che una cosa negativa potesse essere positiva, ed una positiva negativa. C’è del positivo nel negativo e del negativo nel positivo?! Che confusione! Allora, cerchiamo il modo di aiutare il positivo e il negativo insieme a fare luce su tutto!

Aria condizionata

Ho letto che il signor Gianni Agnelli, a chi gli faceva notare che le sue auto fossero un po’ troppo semplici, con pochissima tecnologia, gli rispondeva che “tutto quello che non c’è non si rompe”. La mia auto, o meglio un furgoncino Fiat Scudo, come “optional” ha praticamente niente. La radio sì, ma quella ormai è inclusa sempre, e anche l’aria condizionata ovviamente. Non riuscirei ad immaginare di viaggiare in estate senza aria condizionata. Eppure quando ero piccola, con la mia famiglia, facevamo migliaia di chilometri senza aria condizionata, in autostrada con i finestrini aperti e l’aria schiaffata sui visi a massaggiarli. Qualche sera fa ero in giro in macchina. Finestrini chiusi, aria condizionata, musica sparata. Bellissimo, pensavo. Sono chiusa in una scatola di metallo, sola, alla temperatura giusta e con le vibrazioni giuste. Sono libera, forte, anzi imbattibile. Il mondo è fuori e non può raggiungermi oltre la “bolla di benessere” che mi sono creata. Così mi sentivo. La radio dava stranamente una selezione di brani che mi piaceva: Happier di Ed Sheeran, Watermelon sugar di Harry Styles, Giudizi universali di Lucio Battisti, Cold cold man dei Saint Motel, Lake Washington Boulevard dei Pinguini tattici nucleari, Vivere di Vasco Rossi, e anche il mio adorato Raphael Gualazzi con Follia d’amore. E ancora altri. Involontariamente ho allungato la strada sotto l’effetto estraniante della bolla. C’era pochissimo traffico e, ferma al semaforo, mi è caduto l’occhio sul display della temperatura esterna: 26 gradi, niente male rispetto ai 37 del giorno, non faceva così caldo. Eppure anche la Mercedes che mi stava accanto e le due macchine che mi stavano dietro avevano i finestrini chiusi. Colpa dell’aria condizionata, ho pensato, ci condiziona. Ho spento la radio che in quel momento dava le notizie (tutte brutte) e ho aperto il finestrino. Sì, l’aria era piacevole. Allora ho aperto anche quello di destra. Tutti e due spalancati. Quelli di dietro non potevo aprirli perché sono scorrevoli e manuali (niente optional elettronico che potrebbe rompersi). Oltre all’aria piacevole e vera, si sentivano le voci delle persone che passeggiavano con aria rilassata e vacanziera, ragazzi sfrecciare in bicicletta, suoni lontani di musica dai bar, qualche cane che trascinava il suo padrone, le cicale sempre allegre e pigre dai tempi di Esopo, i leggeri fiati di vento tra le foglie. Il mondo fuori dalla scatola, dalla mia bolla magica, non era così male. C’era altra musica, per tutti e fatta da tutti, anche da me. Perché dovevo lasciarmi condizionare dall’aria condizionata, anzi condizionante, e sollevare il finestrino? Ho pensato alla prima canzone che mi veniva in mente, forse l’unica della quale ricordo tutte le parole. Stava di certo per scattare il verde e volevo sfidare l’ignaro tipo della Mercedes (quando ho accanto una macchina che si presume sia più potente della mia provo sempre a batterla in partenza). Piede sull’acceleratore e via!! – Frateelli d’Itaaliaa…- a squarciagola, con i finestrini ben aperti. Ho seminato la Mercedes ed ho guidato con un gran senso di libertà. E all’arrivo a casa: prima classificata!

Il trabocco

Innanzitutto mi piace il nome: trabocco. Sebbene derivi da “trabocchetto”, tranello, a me fa pensare a traboccante, strabordante. Come il cuore di un innamorato.

Poi mi piace il corpo: di legno di pino d’Aleppo, forte ma duttile, solido e mobile, vigoroso e slanciato.

E mi piace il carattere: sicuro e docile, calmo e laborioso, fermo e gentile.

E l’anima: sincera e altruista, limpida e profonda come il suo mare.

Il trabocco che è in spiaggia con me ogni estate ha lavorato sempre tanto. Da giovane, appena in grado di sostenersi sulle proprie appendici, come tutti i suoi simili, è stato impiegato nella pesca. Tra le sue reti ha raccolto instancabilmente pesci azzurri, seppie e sogliole. Dal tramonto al mattino le sue braccia lunghe tuffavano le reti in mare e poi, piene, le ritiravano. E quando il mondo era sveglio, sotto il sole più alto e cocente, il trabocco riposava, con i piedi sempre tra le sue acque rinfrescanti.

Quando era ormai maturo, gli è stato chiesto di lasciare la pesca. Ormai c’era chi riusciva a far di meglio. Il trabocco non si è scomposto, umilmente ha accettato una nuova mansione, e si è reso disponibile per offrire uno spazio ristorazione. Ovviamente non uno spazio per un ristorante qualsiasi: ma uno di quelli proprio ricercati, romantici, sul mare, col solo suono della risacca e la luce della luna sull’acqua. Il trabocco ha aiutato tante coppie a dirsi “sì”, rassicurandole con la sua pace.

Per tanti anni l’ho incontrato così, sereno e calmo nel rendersi utile.

Poi quest’anno la sorpresa. Il mio trabocco non pescava e non offriva ristoro. Era vecchio, rotto, affaticato e forse malato. Ma non triste né preoccupato. Guardava il suo mare, in silenzio.

L’ho accarezzato come fosse un nonno gigante e mi sono accorta che la sua pelle era ancora più pallida e secca. Il mio nonno trabocco si lasciava ancora modellare dalla natura, la sua docilità era forse il segreto della sua calma. Il sale, il sole. il vento e l’acqua, diventavano sempre più parte di lui, un tutt’uno. Gli ho sussurrato un “grazie” per la sua testimonianza di solidità e coerenza. E lui era lì, fermo nella certezza che tutto risponde ad un equilibrio più grande.