Le tende

Era proprio ora di lavarle quelle tende. Con una buona approssimazione dovevano essere appese lì da due anni. Immobili se non per quei giorni di venticello primaverile o estivo, quando la porta finestra resta socchiusa. Altrimenti rimangono piuttosto ferme, a difendere il loro mestiere di nascondere l’interno dall’esterno, di proteggere gli inquilini della stanza dallo sguardo dei vicini. Si capisce quindi quanta storia sia stata scritta su quei teli appesi. Perché chiamarla polvere è improprio e ingiusto. Il tempo non semina polvere, scrive. Sta a noi interpretare i segni e credere che abbiano qualcosa da dirci. Quindi ho preso la scala per arrivare in alto, a sganciare il bastone per far scivolare via le tende. Ma una volta lassù mi sono accorta che la situazione era ben più “viva” di quello che mi sarei aspettata. Su tutto il bordo a pieghe della tenda si era accumulata così tanta polvere che con l’umidità aveva creato un microclima ideale per una famigliola di ragni: uno grandino e due piccoli. Avevano tessuto una tela meravigliosamente più pregiata e bella delle mie tende. Sulla ragnatela era intrappolata una di quelle fastidiosissime zanzare che ronzano e pungono senza rimorso. Come avrei potuto, tirando via le tende, rovinare il lavoro di tre innocenti esserini, che tra l’altro mi hanno difesa dalla possibile aggressione della zanzara tigre? Non potevo agire d’impulso spinta dalla tradizione delle pulizie di primavera, io un essere pensante e razionale dovevo prendere una decisione più ponderata. E ho deciso che le tende potevano restare lì ancora per un po’, avrei monitorato la situazione settimana per settimana, fino a quando la famigliola avrebbe trovato un cantiere nuovo per il proprio lavoro. Prima di scendere però mi sono accorta che le viti che avrebbero dovuto tenere fermo sui ganci il bastone erano visibilmente svitate. Ho allungato il braccio destro verso la vite di destra ma qualcosa è andato storto e mi sono sbilanciata cadendo all’indietro, sul letto, con le tende addosso ed il bastone stampato sulla fronte. Ancora sommersa, ho sentito un solletico sul naso. Era il ragno, quello più grande.

– Che brutto mostro gigante che sei, con quegli occhi storti!

– Brutto mostro a chi? Senti chi parla! Certo se ti metti sul mio naso ovvio che per guardarti mi vengono gli occhi storti. Dovresti ringraziare il cielo per non averti ammazzato prima, e di aver rischiato di farmi molto male per risparmiare la vita a te a e ai tuoi piccoli.

Il ragno non mi ha neanche ascoltata, è sceso giù dal naso verso la bocca, il mento e oltre e poi non l’ho più visto. Mi sono tirata su, e guardata attorno, dei ragni nessuna traccia. Ho sfilato le tende dal bastone e le ho portate in lavanderia. Sono entrata già curva pronta ad infilare le tende in lavatrice, e quando mi sono sollevata il ragno era lì, davanti a me, grande come un uomo, su due zampe, insieme ai due ragnetti diventati grandi come bambini, e tessevano fili da una parete all’altra della stanza.

– Lo stenditoio è quasi pronto, signora. – ha detto il ragno gigante.

– Lo stenditoio?

– Lo stenditoio sì, per la sua biancheria. Ho visto che ha solo un piccolo stendino.

Intanto i ragni bambini continuavano ad attaccare bene i fili ai muri.

– E perché fate questo per me? Per un brutto mostro?

– Perché lei ci ha salvato la vita. Ce ne siamo accorti quando era arrivata lassù, ha esitato, ha apprezzato noi e il nostro lavoro. Per questo gliene siamo grati. Andiamo ragazzi, per oggi abbiamo finito. Arrivederci signora.

Ed il ragno grande, con i due ragni piccoli, mi sono passati davanti e sono usciti dalla porta di casa.

La sera mi sono accorta che non avevo ancora tirato fuori le tende dalla lavatrice. In lavanderia c’erano ancora quattro bei fili robusti tesi da parete a parete. Io le tende però le riappendo bagnate, così non c’è bisogno di stirarle, si asciugano senza pieghe.

Ho risistemato la scala davanti alla porta-finestra, infilato le tende sul bastone e sono salita su. I ragni non c’erano e neanche uno straccio di ragnatela. Ho avuto un momento di malinconia. Una zanzara ronzava da qualche parte ma non riuscivo a vederla. Che fastidio. Avrei voluto tessere io una tela di ragno per catturarla.

Poi finalmente a letto. Il ronzio non si sentiva più. Ho allungato il braccio per spegnere la luce e la ragnatela era lì, sotto la mensola, bellissima, un ricamo in aria, e incastonata in mezzo una innocua zanzara silenziosa. Mi sono guardata attorno per cercare i ragni, ma niente, non si vedevano. Quando ho chiuso gli occhi però ho sentito un solletico sul naso e scommetto di aver anche sentito una vocina augurami “buonanotte brutto mostro gigante!”.

Il coperchio

Mia figlia L mi ha lanciato una sfida. Eravamo a tavola, attorno alla mia deliziosa zuppa di lenticchie rosse, quando si è alzata e con un gesto quasi spastico, ha preso il coperchio della pentola, mi si è avvicinata e scandendo bene le parole mi ha detto: voglio vedere se riesci a scrivere una storia su questo coperchio. Poi l’ha riposto sulla pentola. Ho accettato la sfida e non appena tutti si sono allontanati dal tavolo senza aver sparecchiato, mi sono seduta vicino al coperchio e gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia. All’inizio non rispondeva e stava fermo e muto, poi l’ho sollevato ed ho capito perché. Era offeso, le parole di L l’avevano ferito perché dubitare che qualcuno o qualcosa possano avere una storia da poter raccontare è come negarne la stessa esistenza e dignità. Era così triste che piangeva lacrime come di condensa da riempire almeno mezzo bicchiere. Infatti si è bagnata tutta la tovaglia. Mi sono affrettata a prendere un canovaccio per asciugarlo e tolta tutta l’umidità, sulla superficie interna, è apparso un viso molto simile al mio, ma più spento. Raccontami tutto, gli ho detto. Ah, vuoi dirmi che ne hai viste tante di cose che bollono in pentola? Certo, nessuno può negarlo, tu vedi le cose trasformarsi, da crude a cotte, da liquide a dense, da molli a croccanti e da dure a molli. E proteggi il cibo dal raffreddamento e eviti che i profumi volino via. Avrai di certo pianto per le cipolle appena tagliate e riso per il solletico dei popcorn che scoppiettano. Ti sei fatto tante di quelle belle docce in lavastoviglie! Certi detersivi ti irritano? Povero, ci farò più attenzione. Il cassetto nel quale ti ripongo è troppo affollato? Mi dispiace, ti cercherò un altro posto. Non sopporti quando ti uso come gong con la paletta di legno? Non lo farò più. E mano a mano che si raccontava, rispondendomi con dei silenzi eloquenti, pareva che il coperchio si distendesse, liberato da tutto quello che non aveva mai avuto occasione di dire. Povero coperchio, mi dispiace e ti chiedo scusa. Tutti abbiamo bisogno di raccontare e tutti dobbiamo cercare di ascoltare. Devo ringraziare L per la sfida. Ho riappoggiato il coperchio sull’avanzo di minestra ormai fredda e l’ho guardato per un’ultima volta prima di sparecchiare. C’era un volto molto simile al mio, ma più disteso e con una maniglia per naso. Stava meglio.

Due candele

I due alti candelabri di ottone li avevo trovati in un rudere di campagna. Avevo comprato due belle candele grigio cenere, come si addice a qualcosa che ha la certezza di finire bruciata, ed era venuto proprio il momento di accenderle. Ci volle un po’, le candele nuove hanno sempre un po’ di reticenza al fuoco, hanno paura di consumarsi, e la paura è lecita. Nel frattempo avevo acceso anche il televisore, era l’ora del telegiornale, e mi ero messa comoda sul divano, con una coperta sulle gambe sempre fredde.

Ancora guerra nei paesi di là, e non c’è pace neanche di qua, la voce del giornalista era fredda e meccanica. La candela più a destra si era accesa bene, quella a sinistra invece faceva molta fatica, sembrava cercasse un po’ di ossigeno. La borsa di ieri è finita in negativo, quella di oggi è crollata e per domani si aspetta di raccogliere le macerie. Mi alzai per provare a rianimare quella povera candela. La misi sulla fiamma di quella di destra e ci volle un po’ ma poi si alzò una bella fiamma anche sulla candela fioca. Tornai sul divano con la mia copertina. Trovati morti tre cadaveri senza vita, la candela di destra continuava a bruciare bene e colava cera, quella di sinistra si stava di nuovo spegnendo. Non avevo più voglia di alzarmi. Ci sono evidentemente già troppi problemi nel mondo per preoccuparmi di una candela che non vuole accendersi bene. Il bosco è stato disboscato per pareggiare i conti con la deforestazione della foreste; nessuno è capace di rammendare il buco dell’ozono; i cattivi hanno di nuovo attaccato i buoni con armi illecite di tipo sparaboom. La candela di destra, che era anche quella più lontana dagli altoparlanti del televisore, si consumava allegramente, quella di sinistra invece, era ai suoi ultimi respiri. Sembrava più pallida dell’altra, aveva davvero una brutta cera, era spenta e faceva tanto fumo. Stavo per alzarmi, malvolentieri, per dar fine a quella vita ormai insensata, quando accadde dell’incredibile. La voce dalla tv era quella di una donna inviata speciale nel Paese Nuovo. Primo bambino nato nel Paese Nuovo, è stato trovato sotto un cavolo ma qualcuno scommette di aver visto una cicogna..il bambino è sano e in ciccia e ha fatto già un paio di puzzette liberatorie…Non riuscii a finire di ascoltare la notizia perché i neuroni erano tutti impegnati alla vista di quel fenomeno imprevisto: la candela di sinistra si accese improvvisamente come un fornello col fiammifero! Rimasi seduta a fissare i miei candelabri e pensai: un bambino che nasce, questo sì che è uno scoop!

Benarrivati!

Oggi è nato Gabriele, e sono nati anche tanti altri bambini di tutti i colori, e domani e dopodomani ne nasceranno altri ancora, ed è il compleanno di Stella che è una bambina grande, ed è stato il compleanno di Lea e di Chiara, e a tutti quelli che sono nati, nasceranno o non sono riusciti a nascere, dedico il racconto Due candele.

Il modem

Nell’anno della pandemia, quando tutti sono stati costretti a rimanere a casa, le reti internet erano sovraccariche, come per una pesca miracolosa che a fatica riuscivano a reggere. Tutti avevano bisogno di collegarsi con qualcuno o qualcosa che non era già dentro le proprie stesse 4 mura: i ragazzi dovevano collegarsi con i prof, i bambini con i maestri, i ragionieri con i liberi professionisti, i banchieri con le banche, gli idraulici con i tubi rotti, gli imbianchini con i muri sporchi, i capi di stato con gli stati, i dittatori con i dittatori, i parrucchieri con i capelloni, i violinisti con i pianisti, i pianisti con i velocisti, i boscaioli con i boschi, le api con i fiori. Insomma, nell’anno della pandemia, quando tutti dovevano stare a casa per evitare i contagi, anche quando ci si ritrovava in 10 sotto lo stesso tetto, ognuno comunicava esclusivamente con qualcuno o qualcosa che ne rimaneva fuori. Per questo i modem di tutto il mondo erano molto stanchi, spesso andavano in tilt: i led lampeggiavano dal verde al rosso come a chiedere una tregua che non veniva concessa mai. Perché nell’anno della pandemia la guerra non era solo contro il virus, non si lottava solo per salvare vite umane. Bisognava salvare anche il PIL, il grill, l’IVA, il DEF, il MES, i BOT, le Partite Doppie, lo Slam, il Down Jones, Indiana Jones, l’istruzione, la distruzione, l’educazione, la diseducazione, l’informazione, la disinformazione, lo sport e il riposo e tante altre cose. Tante cose ed il loro contrario. Ma l’unica Arca possibile per evitare l’estinzione di ciò che esisteva, anche se non se ne capiva sempre il valore o il motivo, era restare collegati ad una rete virtuale. E per questo serviva un modem.

Un bel giorno, nell’anno della pandemia, in una casa abitata da cinque umani tutti occupati col proprio cellulare o computer, avvenne che il modem tutt’a un tratto si bloccò. Nessun tentennamento tra il verde e il rosso e viceversa, tutti i led erano rossi. Rossi come un semaforo all’ora di punta. E come un semaforo rosso all’ora di punta, i led erano riusciti a diffondere un altro virus: l’inquietudine. Gli umani si riversarono tutti contemporaneamente attorno al modem. Lo presero, se lo contesero strappandoselo di mano, lo osservarono da ogni lato e spigolo, lo offesero con ingiurie normalmente destinate ad altri umani, lo picchiarono con violenza e lo lanciarono contro un muro, quasi volessero estirpargli un segreto da spia.

– Ma che fate? Così si rompe!

– Bastardo, non può fare come gli pare!

– Controlla la spina, magari non fa bene contatto.

– La presa è a posto, fortuna che i led sono ancora accesi, anche se rossi.

– Infatti, avreste potuto romperlo, e tutti i negozi sono chiusi, anche quelli di riparazione.

– Prova a schiacciare il tasto reset.

– Già fatto, resta sempre rosso questo fannullone!

– E adesso? Come faremo? Io devo ancora comunicare un mucchio di cose!

– Io ho fame!

– Ti sembra il momento di pensare al cibo?

– Bé, anch’io ho fame. Intanto che questo mostro è fermo posso preparare qualcosa.

– Fai pure, io non mi muovo di qui.

– E se non ripartisse?

– Ripartirà. Con le buone o con le cattive.

– Il pranzo è pronto!

– Come hai fatto, così in fretta!

– Mai sentito parlare dei surgelati?

Si misero a tavola, ognuno prendeva il riso dalla padella in centro e mangiava guardando solo il proprio piatto. Il solo rumore che rompeva il silenzio era quello delle forchette che aggredivano i piatti. Il primo che finì di mangiare corse di nuovo dal modem.

– E’ ancora rosso questo maledetto!

– Allora, visto che c’è ancora un po’ di tempo, faccio il bis.

– Anch’io, è buono questo riso, di che marca è?

– E’ del discount.

– Perché non vi sbrigate e venite ad aiutarmi?

– Ma lascialo stare quel modem, magari ha bisogno di riposare. Stacca la spina per un po’ e poi vediamo.

– E io come faccio a lavorare?

– E le mie lezioni?

– Ma intendo per una mezz’oretta!

– Io sono d’accordo, diamogli del tempo. Intanto potremmo farci una partita a carte.

– Qui dentro siete tutti impazziti, giocare a carte in un momento del genere!

– Ok, le sto già mescolando. Gioca chi vuole. Bridge?

– Almeno sparecchiamo prima. Facciamo spazio sul tavolo.

– Io non ci so fare a Bridge. Briscola?

– Ma secondo me si gioca solo in quattro.

– Io so giocare solo a scala quaranta.

– Ma è da vecchi!

– Vada per scala quaranta, do io le carte.

– Secondo me è il reverendo Green, con il tubo di piombo, in biblioteca.

– Sei stata troppo precipitosa, vedrai che non è esatto.

– Cavoli, ne ho sbagliato uno!

– Non dovevi dirlo! Adesso ci hai dato un indizio!

– Allora provo io a dare la soluzione.

– Compro l’Hotel.

– Capitalista!

– No, investo.

– E tu, ogni volta che ci fermiamo in Viale dei Giardini ci spilli un mucchio di soldi!

– Io vedrei anche la quinta puntata.

– Si, questa seconda stagione è ancora più divertente della prima!

– Noo, basta, è una roba troppo da femmine.

– A me piace, non mi fa ridere ma mi rilassa.

– Infatti hai dormito per due ore!

– Zitti, inizia.

– Passami i pop-corn.

Si svegliarono al mattino molto tardi. Si erano addormentati sul divano. Qualcuno per terra. Il primo occhio che si aprì era proprio puntato su un led. Un led verde. Poi si aprì l’altro occhio. L’umano svegliò gli altri scuotendoli ma senza perdere di vista i led. In pochi secondi anche altri due led erano diventati verdi. Tre su sette. Altri tre esseri umani si svegliarono. Così erano svegli in quattro su cinque. Dei quattro svegli, due erano esseri umani femmina. Quando le due femmine si accorsero del modem, già sei led su sette erano verdi. Non sapevano se essere felici o no. Poi si svegliò l’ultimo maschio. Nessuno parlava. Nessuno sapeva cosa dire perché nessuno riusciva a pensare. Nessuno riusciva a pensare a cosa augurarsi. Il settimo led divenne verde. I cinque esseri umani si avvicinarono al modem, sempre senza parlare. Lo accerchiarono, lo fissarono, lo sfidarono con lo sguardo. Il modem non batté led. Gli si avvicinarono ancora, stretti come attorno ad un letto di morte, in una preghiera silenziosa e incerta. Poi una degli esseri umani femmina prese una decisione. Di getto lanciò una mano sulla spina della corrente. Gli altri la guardarono disorientati e spaventati.

– Non farlo, non è ancora il suo momento.

L’altra femmina si avvicinò alla prima per difenderla. Due a tre.

– Siete impazzite? Si è appena ripreso. Abbiamo già fatto una pausa di quasi 24 ore!

Ma le due minacciavano ancora di tirare la spina.

– Almeno votiamo. Decidiamo insieme.

– Io sto con loro – disse un maschio. Gli altri due lo guardarono disgustati. Tre a due.

– Non volete farlo sul serio? Se poi non si riaccende più?

– Anch’io sto con loro. Insomma, ci siamo divertiti, perché non giocare ancora un po’.

– Perché non giocare? Siamo diventati bambini? Il mondo sta andando a rotoli e tu pensi a giocare!

– Ok, come siete seri! Lasciamo stare, torniamo tutti ai nostri schermi per salvare il mondo! – e la femmina che teneva la spina si alzò di scatto, trascinandosi inavvertitamente dietro il cavo e facendo cadere il modem dallo sgabello sul quale era stato tenuto in rianimazione.

– NOOOO, che cosa hai fatto! – e uno dei maschi si lanciò ad afferrare il modem. Per fortuna i led erano ancora accesi e tutti verdi.

– L’abbiamo scampata per poco. Anzi tu l’hai scampata per poco, perché se si fosse rotto ti avrei picchiata.

– Dai, non esagerare. Comunque, adesso è tutto a posto e finiamola qui.

– Io propongo un ultimo giro a Cluedo e poi ognuno torna alla propria attività.

– Ok, ci sto.

– Anch’io.

– Ok.

– Dai iniziamo.

– Io prendo la pedina gialla.

– Io blu.

– Io di cose che pesano meno di un chilogrammo con la Z ne ho trovate tre!

– Per me la Z è la più difficile.

– Io sono ferma alle parole che si urlano.

– Allora vi urlo io una parola con la z: ZITTI! Sto cercando di scrivere due righe di memorie!

– Non stai mica per morire?

– No, ma sono giorni speciali. Saremo sui libri di storia. È meglio lasciare qualcosa per i posteri.

– Smettetela di parlare e concentratevi, non sentite che il tempo è quasi scaduto? Ecco è scaduto. Che cosa avete scritto alla voce Sport?

– Rummikub è semplicissimo, adesso ve lo spiego.

– Se bisogna fare i conti io non ci gioco.

– Tu continua con le tue memorie, tanto si gioca al massimo in quattro.

– Neanche io ne ho voglia, preferisco un gioco in cui non si ragioni.

– Ma no, fidatevi, vedrete che non riuscirete a smettere!

Il modem era ancora verde, sette led tutti verdi. Passò del tempo, non si sa quanto. E i cinque umani, al tempo della pandemia, si addestrarono a giocare, a parlare, a dialogare, a ridere, a cucinare, a mangiare, a fare cose insieme. Ogni tanto guardavano il modem, gli si avvicinavano col computer o il cellulare, per ristabilire un contatto con lui, e non farlo sentire solo. E mantenevano anche i contatti col mondo fuori, nei tempi giusti. Perché nell’anno della pandemia ci si accorse che il tempo è una grande scatola, e il suo valore dipende da quello che ci si mette dentro. I cinque umani volevano lasciare una bella scatola del tempo ai posteri, ai libri di storia, e per questo dovevano ancora conoscersi un po’, e ridere un po’, e piangere un po’, e giocare un po’. Insieme.

La poltrona con le ruote

Ho una poltrona Ikea modello Tullsta che ha circa vent’anni. È in pelle nera ed è quasi come nuova, ha solo qua e là qualche piccola ruga, che sull’arredamento siamo tutti d’accordo stia bene, gli dona un tocco vintage che adesso va tanto. Qualche anno fa ho avuto l’idea di sostituire i piedini con delle belle rotelle in legno di ciliegio. Prima di comprarle avevo condiviso il desiderio con mio marito che però non riuscendo ad immaginarne il risultato era un po’ scettico. Con uno slancio di intraprendenza, una volta che lui è stato via per lavoro per qualche giorno, le ho comprate, e con un po’ di buona volontà e un tocco di ingegno, sono riuscita ad effettuare la sostituzione. Non volevo mettere mio marito davanti ad una decisione già presa e realizzata, ma semplicemente mostrargli la funzionalità e anche la bellezza della mia intuizione. Infatti quando è tornato, dopo un attimo di esitazione e forse anche un ben celato disappunto, cedendo al mio invito a sedersi sulla poltrona, non ha potuto che ammirarne la comodità, praticità e versatilità. Poteva spostarsi facilmente dalla postazione lettura vicino all’applique, alla zona televisore e poi ancora verso l’angolo più buio per il riposino e verso il tavolino degli scacchi. Quella volta ho potuto tirare un sospiro di sollievo dopo aver rischiato un bell’incidente diplomatico per eccesso di zelo! E ancora di più ero sollevata, nel vedere quanto di giorno in giorno mio marito apprezzasse quella poltrona. Appena tornava dal lavoro ci si buttava su per poi accogliere fra le braccia, una ad una, le sue figlie; la guidava per andare a guardare Euronews; se avevamo ospiti, eravamo tutti sul divano, ma lui sulla poltrona. Una volta l’ha persino portata in terrazza per fumare! Un giorno però ho notato un movimento strano, mi è parso di vedere, non appena mio marito è rientrato da lavoro, la poltrona spostarsi verso di lui. Subito ho pensato di aver avuto un’allucinazione; ormai era così automatico che mio marito raggiungesse quella destinazione, la poltrona, che riuscivo ad immaginare anche il contrario. Come nel proverbio di Maometto che se non va verso la montagna, è la montagna a spostarsi da lui. Però nei giorni successivi quel tipo di allucinazione si manifestava con più frequenza. La poltrona andava verso la porta al rumore della chiave, verso il divano se c’era seduto mio marito, poi si avvicinava al tavolo…e quando l’ho vista davanti alla porta della camera da letto non ci ho visto più, quella storia doveva finire. Appena sono rimasta da sola con lei sono andata alla cassetta degli attrezzi ed ho preso un cacciavite. Sono tornata piano piano, tenendo il fiato, in soggiorno e l’ho colpita alle spalle! A quel punto non poteva più muoversi. L’ho rigirata ed ho svitato le rotelle, le ho messe in un sacco nero della spazzatura e sono andata giù a buttarle per sempre nel bidone condominiale. La sera quando mio marito è tornato, avevo preparato il suo piatto preferito, riso alla cantonese con pollo al curry, e abbiamo mangiato tutti insieme, anche le figlie, a tavola. C’era un’aria serena e festosa. Poi, al momento di Euronews mio marito si è accorto dell’orrore: Che cosa è successo alla poltrona? Che fine hanno fatto le rotelle?

Ed io, abbracciandolo: Ho capito che erano davvero stupide e inutili, avevi ragione ad esserne scettico. Non prenderò mai più una decisione così importante da sola. Perchè ti amo, davvero, ti amo.

Lui mi ha guardata come se stessi scherzando, poi indicando la poltrona: Beh, almeno rimettile i piedi!

No, può aspettare ancora un po’ così, deve assestarsi.

Abbiamo guardato insieme Euronews, sul divano, con la coperta. Ho lanciato un ultimo sguardo alla poltrona, mi pareva volesse muoversi ma non ce la facesse.

Auguri Stef

Oggi è il compleanno di Stef. Stef è inciampato nella mia vita, ed io nella sua, più di venti anni fa. Da allora non smettiamo di inciampare, a volte ci guadagnamo anche le ginocchia sbucciate, e ogni incidente è l’occasione per restare seduti a terra e raccontarci un po’ di più: davvero ti piace il bowling?; però in cucina ti prego, ci sto io, hai tanti pregi, ma quello no; ma l’ananas nelle lasagne? no, no, e poi no; e se lasciassimo tutto per fare il giro del mondo? sì, perchè no; però facile a dirsi, coi casini che abbiamo; bè, ne volevi dieci, ne hai solo cinque..; la cioccolata insieme al burro è troppo; e se invitassimo tutti gli amici che abbiamo? e anche quelli che avremo? ; un po’ di realismo, e dove li mettiamo!; ma senti chi parla di realismo, una che chiama il suo blog cipollefritte….

Auguri Stef! il racconto La poltrona con le ruote è per te.

L’uomo di peluche

Nell’anno della pandemia successe che per decreto legge tutti gli umani, in tutto il mondo, furono rinchiusi nelle loro case. Gli animali invece, erano liberi di girare dove volevano. Anche dove prima non avrebbero osato. A Londra le caprette brucavano la siepe di Buckingham Palace; a Roma le anatre sfilavano tra le vetrine di via Condotti; a Pescara gli orsi giocavano in spiaggia a fare i castelli di sabbia; a New York una giraffa parlava con la statua della libertà; a Hong Kong i panda andavano su e giù per gli ascensori dei grattacieli e a volte si fermavano sui tetti, se erano per esempio due panda innamorati, a guardare il tramonto; i coccodrilli erano arrivati a Parigi e si godevano il Louvre indisturbati; a Mosca le mosche ballavano al Bolshoi.

In una città, proprio in mezzo al mondo, un cucciolo di leone passeggiava tra le vie.

– Stai attento, non avvicinarti troppo alle gabbie. E neanche alle gabbie a vetri, non c’è da fidarsi, in quelle ci sono gli umani più pericolosi. – Gli aveva detto la mamma prima di lasciarlo andare a giocare.

Il leoncino camminava curioso, e osservava tutto. C’erano in effetti alcuni umani confinati oltre delle recinzioni ampie, a volte esemplari singoli, a volte due o tre insieme, che giocavano o leggevano o prendevano il sole, e non sembravano così pericolosi, ma meglio non fidarsi, se erano stati rinchiusi un motivo c’era. E poi in effetti c’erano quelli nelle gabbie di sicurezza, quelli che bisognava tenere a bada con mura forti e vetri spessi perché neanche le sbarre sarebbero state sufficienti.

E poi c’erano i pericolosissimi, quelli che erano nelle gabbie di sicurezza protette a loro volta dalle sbarre. Erano edifici non molto alti con uno spazio verde attorno e oltre il verde delle robuste recinzioni con ferro spinato e telecamere di sorveglianza. Di quegli umani non ci si poteva fidare neanche un po’, era meglio non provare neanche a guardarli.

Il leoncino ci stava provando proprio gusto a camminare per quelle vie che non conosceva, e ad ogni passo diventava più curioso, oltre ogni angolo le raccomandazioni della mamma si perdevano un po’ tra i labirinti della memoria.

Ad un certo punto fu attratto da delle grida di cucciolo umano. Le riconosceva bene, perché nella riserva in cui viveva normalmente, spesso la notte sentiva quei versi, e la mamma gli aveva insegnato subito a riconoscerli come un segnale di pericolo. Ad ogni passo li sentiva più forti, benché come soffocati o lontani. Arrivato davanti ad un cancello trovò un piccolo umano di peluche: un cucciolo umano con la testa ricoperta di lana marrone, gli occhi di bottoni neri ed un vestitino giallo. La bocca dipinta di rosso alba. L’afferrò delicatamente con i denti e sentì quelle grida umane ancora più forte. Venivano da molto vicino. Sollevò lo sguardo, ed era lì, un pericolosissimo esemplare di cucciolo di uomo, oltre la recinzione col filo spinato, oltre il prato, oltre la vetrata spessa, in piedi a fatica, con una ridicola mutanda imbottita e nient’altro addosso. Aveva una testa grande con la criniera nera, ed una bocca che spalancata pareva enorme e con ben quattro denti. Faceva davvero paura. Il leoncino pensava che non avrebbe mai voluto incontrarlo libero sulla sua stessa strada. Ma il desiderio di osservare e conoscere meglio il nemico prevalse sulla paura, e il leoncino restò lì ad osservare il piccolo umano. Aveva ancora il peluche in bocca quando vide il piccolo voltarsi a raccogliere qualcosa, e subito dopo tornare davanti alla vetrina con in mano un cucciolo di leone di peluche. Non piangeva più il nemico, mostrava al leoncino il suo pupazzo: lo sollevò e lo sbandierò ed il leone capì che gli stava offrendo uno scambio: leone di peluche per uomo di peluche.

Questa non mi sembra una cattiva proposta – pensò il leoncino, – o forse è una trappola. Ma in ogni caso come potremmo realizzare lo scambio?

Non riuscì neanche a provare a pensare ad una soluzione che si sentì chiamare.

– Eccoti finalmente! Ti avevo detto di non allontanarti! Ma guarda dove sei finito, davanti alla gabbia degli esemplari più pericolosi!

Il leoncino sentì il cucciolo d’uomo gridare di nuovo, ed ancora più forte. Poi vide arrivare accanto a lui un esemplare adulto e il cucciolo d’uomo con un dito gli indicava proprio lui, il leoncino davanti al cancello. O forse il peluche che aveva in bocca. Ma l’adulto non capì, come spesso succedeva tra le generazioni degli umani, e lo tirò indietro, lontano dalla finestra.

– Andiamo, tesoro, non ti devi affezionare a quegli esemplari. Sono molto pericolosi. E dicono che tra un po’ riapriranno le gabbie! – la mamma leonessa aveva tanta fretta.

Il leoncino lanciò il peluche oltre le sbarre e seguì la mamma. Sentì ancora un verso del cucciolo umano, un suono lontano e soffocato, e decise di conservarlo nella memoria come un suono amico.

Cipolle e COVID

Cipolle fritte e coronavirus. Aprire un blog che si chiama Cipollefritte (e non parla di cucina, ma anche) e nasce sotto la guerra del coronavirus sembrerebbe perlomeno insensato. Invece la cipolle a mio parere c’entrano sempre. Le cipolle, come il coronavirus, fanno piangere, tanto. Il virus sta mettendo in ginocchio il sistema sanitario, ci sta portando via tante persone care senza darci la possibilità di salutarle. Piangiamo senza consolazione, lacrime che ci sembrano gratuite e sprecate. E chi cerca di affrontare una cipolla sa che il coltello ne lacera la polpa, ma a piangere siamo noi. A dimostrazione che nell’equilibrio dell’universo davvero tutto è collegato, ad ogni azione una reazione, una cipolla affettata, lacrime versate. Lacrime che sembrano gratuite e sprecate. Ma questo virus ci ha anche regalato del tempo. Fino ad un mese fa non c’era mai tempo: non c’era tempo per stare con i figli, non c’era tempo per giocare insieme in famiglia, non c’era tempo per vedere che esistono dei vicini che hanno un volto ed un nome, non c’era tempo per la lettura e la riflessione…E le cipolle, dopo averci fatto piangere, in padella si arrendono, diventano docili e innocue, appassiscono lentamente su quel filo d’olio spalmato in padella. E poi a tavola, col formaggio, o in una frittata, o in mille altri modi, ma condivise soprattutto, regalano la gioia di un pasto semplice, genuino e salutare. Regalano il tempo di guardarsi e ridere: ridere per il piacere del gusto, o al contrario, per chi non riesce a mandarle giù, ridere per non essere capaci di apprezzarle.

Le cipolle c’entrano sempre. Dove si piange e dove si ride.