
Oggi è la festa della Repubblica. Dedico alla nostra Repubblica questa riflessione sulla bellezza. Perchè libertà e democrazia sono sorelle della bellezza.
Ogni volta, ma proprio ogni volta, che mi ritrovo un porro in mano, penso a “porro unum”. Per quanto la mia passione per il latino al liceo fosse meno che quella che oggi ho per il ferro da stiro, riesco a capire ancora che nella frase latina “porro unum..”, porro non si traduce porro e unum non è l’articolo indeterminativo. “Porro unum” si usa nella mia lingua per intendere “la cosa essenziale”, “quello che conta”. Però le cose accadono e c’è poco da fare. E a me accade frequentemente una scena, familiare, domestica, e per questo credibile: io sono in cucina, col tagliere, sul tagliere il porro, uno, un porro, da immolare in padella, il coltello nella mano destra, e quando sto per dare il via all’esecuzione sento quella voce, sempre: “porro unum”, “porro unum”. Ed io la interpreto come un monito forte, un comando divino: il porro deve rimanere uno, non farlo a pezzi, porro unum, porro unum. Ovviamente in genere non le do ascolto, a quella voce, altrimenti sentirei poi al momento dei pasti, altre voci, ancora più chiare e dirette e decise, ammonirmi per il mancato ingrediente nella pietanza. Oggi quindi si ripeteva quella scena: io, il tagliere, il coltello ed il porro, un porro. E di nuovo sentivo quella voce: “porro unum, porro unum”. Ho preso il porro con la mano sinistra, senza lasciare il coltello dalla destra, e l’ho osservato. Il porro è un meraviglioso esemplare a strati. Nel porro le foglie sono così bene avvolte le une sulle altre che non bisogna lavarle, basta eliminare quella esterna, perché ognuna protegge l’altra dallo sporco, e non solo. E lì, in quel momento, per la prima volta, mi si sono aperti gli occhi sul significato di quella metafora, di quella voce. Il porro è la vita, fatta di tante foglie che crescono l’una attorno all’altra belle strette, sostenendosi e proteggendosi a vicenda: sono la famiglia, il lavoro, gli amici, le passioni, il volontariato, c’è la ricerca di spiritualità, e ci sono i dolori, le incomprensioni, le sospensioni, la morte e tanto altro. Se affetto quel porro compio un reato, perché in ogni fetta della vita, come in quelle del porro, c’è dentro tutto in sezione, deve esserci dentro tutto. Solo lasciando il porro intero posso far sì che la foglia famiglia possa avvolgere e comprendere il lavoro e viceversa, e la spiritualità può dar senso al dolore, e il volontariato….tutte belle foglie concentriche l’una sull’altra, sorelle. Tutte devono sorreggere la vita. La mia vita. La Vita. Se tolgo un pezzo tolgo tutto. Quel benedetto porro, quel “porro unum”, mi sta dicendo forse che la vita va lasciata intera? Vissuta intera? Che tutto è bellezza, tutto insieme è bellezza? Che la bellezza include anche il brutto, se si trasforma in amore? Come un porro che marcisce e dà vita ad altra vita. Bè, già qualcuno prima di me aveva detto che la bellezza salverà il mondo, forse io ci sono arrivata per altre vie, dalla cucina, da un ortaggio semplice, ad una conclusione simile!
Ancora col coltello in mano, guardo il povero porro teso e stremato dall’agonia che invoca una rapida esecuzione. Oggi è il tuo giorno fortunato caro mio, quella voce mi ha convinta, non finirai affettato e fritto in padella. Poso il coltello e appoggio di nuovo il porro sul tagliere. Vedo la sua pelle rugosa distendersi. Solo per poco però. Ho deciso di metterlo intero nel forno!
Quante cose può insegnare un semplice porro!! A patto che sia uno e intero però…
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